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Capitolo 5
La zona rossa
Siedo a capotavola e affondo la schiena nella poltrona. Le dita tamburellano sulla ventiquattr’ore. Gli occhi dei presenti sono puntati su di me. L’odore pungente di arancia, pompelmo e mandarino, proveniente da qualche dopobarba, mi pizzica la gola.
«Ho una comunicazione importante.» Faccio una pausa. «Prenderò qualche giorno di ferie.»
I loro sguardi si incrociano. Sara si sporge in avanti, le mani intrecciate sul tavolo. «Possiamo sapere per quanto tempo?»
Scatto in piedi. La poltrona slitta indietro accostandosi al muro.
«Seguirò ogni progresso da remoto. Riceverete i miei aggiornamenti.»
Gianni si liscia la barba. «Chi prenderà decisioni operative in tua assenza?»
«Non cambia niente per voi. Scriverete direttamente a me. E ora, se non c’è altro, potete tornare alle vostre mansioni.»
***
Abbasso il volume della voce artificiale e seguo il tragitto della piccola freccia azzurra sullo schermo. Raggiungo l’indirizzo impostato e parcheggio al bordo della strada.
Le foglie gialle degli alberi si ammassano in piccoli cumuli ai margini della carreggiata.
Scendo, chiudo l’auto e provo ad aprirla per controllare. Mi incammino. L’aria è fresca, tagliente; tiro su il colletto della giacca. Mi blocco, frugo in tasca e premo il tasto di chiusura. Le quattro frecce si illuminano: l’avevo già chiusa.
«Non divertirti troppo senza di me, Sergio, e lasciami qualche goccia di Scotch. Sto arrivando.»
Dall’altro lato del viale, un uomo tiene fermo il cappello sulla testa. Una donna, con il viso coperto, stringe una sciarpa intorno al collo. Il tessuto le svolazza dietro le spalle. Dentro al bar, un ragazzo assapora il caffè e scambia qualche parola con il cameriere affacciato alla porta.
Avrò a che fare con scienziati freddi e calcolatori, o visionari in bilico tra genio e follia?
Una capsula per sbirciare nell’aldilà. Solo il concetto mi sembra una cazzata enorme. Ma se non ci credessi, perché sarei qui?
E le persone, come saranno?
Premo il campanello. Il videocitofono si illumina, la serratura scatta con un suono metallico e il cancello inizia a scorrere cigolando. Entro e stringo lo zaino sulla spalla destra. Le pareti, fatte di ampie vetrate riflettenti, catturano un punto brillante, un bagliore che si allarga dal centro, affacciandosi tra due grattacieli.
Inspiro a fondo l’aria satura di resina.
Mi avvicino alla reception. Il banco, curvo, combina legno chiaro e una superficie trasparente.
Una donna con occhi piccoli e lentiggini sul naso mi squadra da dietro il vetro.
«Giorgio Stami.»
Lascia il mouse e afferra un tablet. Le sue dita, sottili e rapide, sfiorano lo schermo. Il rumore di fondo è lieve: passi ovattati in lontananza, il clic secco di una tastiera, una voce dagli altoparlanti che scandisce un nome.
Accanto al microfono, un libro azzurro con la copertina mangiucchiata: La matematica. Vol. 1.
«Giorgio, manutenzione tecnica?» dice, alzando lo sguardo.
«Sì, sono io.»
«Firma qui.» Fa scivolare un modulo sotto il vetro. «L’ingresso è a destra. Troverai il capo del personale ad aspettarti.»
Riprende il foglio e lo infila in una cartellina grigia di fianco al tablet.
L’accesso indicato si avvicina a ogni passo, le ante a vetri si aprono. Se mi stanno prendendo per il culo con questa storia dell’aldilà, li faccio mangiare diodi e cagare microprocessori.
L’eco dei miei passi rimbalza nell’atrio vuoto. Hanno davvero trovato il modo per andare dall’altra parte?
Una stampa domina l’intera parete; mostra la fusione armoniosa tra meccanica ed elettronica: ingranaggi intrecciati con circuiti intricati e microchip.
Al centro della sala mi aspetta un uomo poco più alto dell’interruttore della luce, con la pappagorgia che gli inghiotte il collo. Tira su le maniche della felpa azzurra con la scritta Thana sul petto e mi punta contro l’indice, accennando un sorriso.
«Buongiorno, sono arrivati i rinforzi, finalmente.» La sua barba grigia è ben curata. «Stami, giusto?»
«Sì, perché rinforzi?»
Mi stringe la mano. «Sono Ricci, capo del personale. Benvenuto. Vieni, ti mostro dove lavorerai.»
Mi guida lungo il corridoio; sfioro i muri con le spalle. Le luci, posizionate a livello delle caviglie, rischiarano i nostri passi.
Le pareti sono tappezzate di cartelli di sicurezza: “Accesso Riservato”, “Non Oltrepassare”, “Pericolo di Scosse Elettriche”. Su uno di essi sono raffigurati i DPI: guanti, casco e cuffie.
Ricci spinge una porta di metallo. «Qui è dove i tecnici specializzati passano la maggior parte del loro tempo.»
Davanti a me, scaffali metallici pieni di schede di ricambio imbustate si allineano alle pareti. Set di chiavi a tubo e fisse pendono ordinati accanto a pinze e cacciaviti. I banchi di lavoro, invece, sono un caos: macchinari smontati, viti sparse, attrezzi abbandonati a metà.
Odore di grasso e ferro bruciato. L’aria trattiene ancora la scia acre di una smerigliatrice in azione.
Ricci afferra una borsa da lavoro da uno degli scaffali. «Questo è il tuo kit base.»
«C’è una lista con l’inventario?» La apro appena, chiavi, cacciaviti e un paio di pinze. «Giusto per sapere se manca qualcosa.»
Una piega divertita gli spunta sulla bocca. «Tranquillo, non stiamo contando le viti. È tutto lì.»
La cinghia di cuoio preme contro la spalla, la sistemo.
Si ferma sotto il condizionatore. Un soffio d’aria fredda gli solleva il ciuffo, scoprendo la pelle lucida del cranio. «C’è anche un multimetro. Se lo perdi, lo paghi. Chiaro?»
«Sì, certo.»
«Qui c’è il badge per accedere a quasi tutti i locali.» Apre la mano, mostrando una tessera bianca con il mio nome stampato sopra. Sul retro, una banda magnetica lo attraversa.
«Mi sarei aspettato un controllo accessi con tecnologia RFID.»
L’uomo fa spallucce. «Scelte aziendali.»
Allungo la mano per prenderla.
Lui la ritrae. «Serve per entrare in ogni area. Ci sono zone dove non devi mettere piede, a meno che non sia autorizzato.» Mi fissa un istante. «Andiamo ad abilitare la tua tessera.»
«E per le mansioni, invece?»
«I dettagli li riceverai dal supervisore tecnico, ma se c’è un problema più serio, vieni da me.»
Parte un battito metallico. Le vibrazioni risalgono dal pavimento, facendomi tremare le ginocchia.
«Abituati al rumore, non smette mai,» dice, Ricci, riposizionando i capelli.
Mi fa strada fuori dalla stanza attrezzi. «Ecco è la sala delle macchine. Qui ci sono gli apparati principali.»
Le apparecchiature occupano quasi tutto lo spazio, enormi, intrecciate di cavi e circuiti che corrono tra le pareti. L’odore di ozono e gomma bruciata punge le narici.
«Questo è il dispositivo che vi porterà dall’altra parte?» Due tubi ovali contenenti un liquido viola escono dal macchinario e si perdono nel soffitto. Lo fisso. «A che punto siete?»
Ricci aggrotta le sopracciglia. «Tu sei qui per la manutenzione.» Stringe la cinghia della borsa degli attrezzi. «Queste sono solo periferiche.» Sbuffa. «Quella è in un’altra ala, e lì non ci puoi andare. Solo io posso.» Rilassa le spalle. «Adesso torniamo alla reception. Devo registrarti nel sistema.»
Camminiamo attraverso i corridoi, tra il ronzio dei motori elettrici e il ticchettio dei passi sulle piastrelle.
Nell’atrio principale, la donna alla guardiola mi squadra. «Nuovo assunto?» Fa l’occhiolino.
Ricci scorre il mio badge su un lettore. Il dispositivo emette un beep acuto.
«Sei ufficialmente dentro,» dice Ricci, con un sorriso che gli tradisce gli occhi.
«Ci vediamo domani alle sette e trenta. Non fare tardi.» L’uomo si allontana, il rumore dei passi si dissolve.
Rimango solo nell’atrio, stringendo il rettangolo di plastica bianca con la mia foto, il nome e un numero: novecentosessantatré. Le porte si aprono; escono tre giovani in camice bianco e due penne nel taschino.
Infilo il badge in tasca e stringo la borsa degli attrezzi. «Non abbiamo un armadietto dove mettere questa roba e cambiarci?»
La ragazza batte la penna sui denti più volte. «Stai chiedendo alla persona sbagliata.»
Mi avvicino al distributore, premo il primo tasto, il caffè bollente sgorga dalla cialda nel bicchiere di plastica. Lo prendo e bevo un sorso.
La barca, il mare calmo, io e Sergio insieme... Perché non riesco a lasciar andare tutto questo?
«Allora, nuovo arrivato, non hai niente da fare?»
Alzo lo sguardo e incontro gli occhi di un uomo con il camice ben stirato.
«Sto prendendo il caffè, nella mia pausa.»
Mi osserva, occhi verdi e taglienti. C’è qualcosa di strano in lui, nel suo modo di tenere la testa leggermente inclinata.
«Qui non si viene per le pause.» La voce è bassa e ruvida. Mi fissa un istante, si gira e fa per andarsene.
Sorseggio la bevanda già fredda. «Lei è?»
Sul medio, un anello con un serpente che stringe uno scorpione.
«Mario, il responsabile del progetto.»