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Capitolo 4
Il Colloquio
Poggio le mani sul tavolo ovale e lascio le impronte sulla superficie lucida; mi adagio contro lo schienale della sedia, che scricchiola sotto il peso.
Vado alla libreria ed estraggo il volume OPALE/POLONI, sistemandolo prima di POLONIA/RITROS.
Sanno che devono rimetterli al loro posto. Raddrizzo la statuetta con la bilancia e la spada.
Oltre la parete di vetro, la figura di Monica si muove in segmenti ondulati, deformata dalla luce che filtra dall’esterno. Un bip e lo schermo del laptop si illumina, appare il logo lampeggiante della Thana.
Che culo, mi hanno risposto davvero.
Mi alzo. Monica è sulla soglia. I nostri sguardi si incrociano; fa un passo indietro. La fragranza di mela verde resta nell’aria, sottile e nitido. Scusa, cara, ma devo restare da solo. Le strizzo l’occhio e chiudo la porta.
Lei accenna un sorriso, si volta e sparisce nel corridoio.
Vediamo se mi migliorano la giornata o me la rovinano. No, cazzo. Schermata blu e un enorme QR sul monitor.
Riavvio il sistema. La barra di progresso avanza a passo di lumaca. E ditelo, no, che era meglio farsi un caffè.
Finalmente, apro la mail.
Grazie per la sua candidatura.
Tamburello la penna sul foglio, la punta lascia una sequenza di punti e tratti.
La invitiamo a sostenere un colloquio conoscitivo presso i nostri uffici.
Bussano alla vetrata. Mi volto di scatto.
Roberto è lì, appena oltre il vetro. Piega una penna tra le dita fino a spezzarla. «Hai un minuto? Devo parlarti.»
«Trenta secondi. Sono impegnato.»
Spinge la porta ed entra, portandosi dietro l’odore del dopobarba. «Ieri ho combinato un casino.»
Poggio la matita, incrocio le braccia e mi appoggio allo schienale. «Cazzo hai fatto?»
Digrigna appena i denti e guarda oltre la mia spalla. «Mi sono ubriacato. Ho parlato del nostro progetto a una donna.»
Premo l’indice sulla rotella del mouse fino a inclinarla di lato. «Porca puttana, Bob. Dovrei licenziarti seduta stante.»
Roberto solleva di scatto la testa. «Lo so. Per questo sono qui.» Infila la penna spezzata in tasca. «Ti chiedo di non farlo. Non succederà più.»
Lo scruto. Sta mentendo o è davvero il coglione che sospetto?
«Chi altri lo sa?»
«Nessuno.» Fa un mezzo passo indietro. «Sono venuto solo da te.»
«Che non si sappia. E speriamo che non venga fuori.»
Roberto annuisce. «Grazie, Giorgio. Sono in debito.»
Lo seguo con lo sguardo uscire; la porta si chiude con un sibilo.
Se quella donna capisce cosa ha in mano, potrebbe usarlo per ricattarci.
La “Bic” mi sfugge dalla presa e cade con un tonfo sul legno.
Raggiungo la finestra. Le auto sfrecciano veloci nel traffico denso. Alito sul vetro, il vapore si espande. Meglio non illudersi troppo. Potrei essere solo un numero su una cartella. E comunque, se non vado, non lo saprò mai.
Con l’indice disegno una spirale sulla superficie appannata. Sorrido. Afferro il cappotto e chiudo la porta.
Monica sta frugando nel cassetto, l’indice le sfiora il lobo dell’orecchio. Sulla scrivania, l’orchidea bianca ha foglie ingiallite, e un biglietto appuntato al vaso che ondeggia leggermente.
Sbatto le nocche sul monitor.
Lei solleva lo sguardo, le dita ancora nel cassetto. «Sta andando via di già?»
«Prendi le chiamate, scannerizza i documenti e inviami tutto per posta elettronica. Mi assenterò per qualche giorno.»
La donna giocherella con una graffetta. «Come desidera, signore.»
Le strizzo l’occhio.
Il metallo scivola dalle sue dita, tintinna sul pavimento e si affretta a raccoglierlo.
Nel taxi c’è odore di nuovo, abbasso un po’ il finestrino. Una sirena ulula nel traffico. Controllo lo zaino: bene, non manca niente.
Sobbalzo in avanti e mi tengo al poggiatesta. «Ma che cazz…
Davanti, una fila di auto ferme. Uomini e donne in gilet arancioni sventolano bandiere. Due ragazze in minigonna, mostrano le chiappe sorreggono cartelli con scritte in stampatello: “Reddito dignitoso”, "Lavoro non sfruttamento”, “Abbiamo diritto alle ferie”.
Il tassista poggia i gomiti sul volante. «Forse uno sciopero. Stanno bloccando la strada.»
Sempre la stessa sfiga, incollata a me. Se non fosse una donna, direi che ci sta provando. «Quanto dista a piedi?»
Lui si gira. «Manca circa un chilometro e mezzo.»
«Avrei potuto usare questi venti minuti per bermi una birra.»
La macchina si accosta al marciapiede; tiro fuori una banconota da cinquanta euro stropicciata e la passo all’autista. Agguanto la maniglia appiccicosa della portiera ed esco.
Il vento solleva le foglie giallognole degli aceri. Percorro il viale alberato che conduce alla Thana, le suole scricchiano sul ciottolato. Poggio lo zaino su una panchina bianca e sfoglio la documentazione. Mi avvicino al blocco.
Uno si volta, indossa la tuta macchiata d’olio, le mani stringono una chiave da trentadue. Leva la cicca dalle labbra e la sbatte contro l’asfalto. «Torna indietro, amico. Oggi nessuno passa.»
«Ho un appuntamento.»
Lui alza le spalle. «Questo non è un mio problema.»
Il megafono amplifica la sua voce e quella degli altri. Uno si siede sull’asfalto, un altro accende un fumogeno rosso.
«Vorrei darti l’impressione di essere minimamente interessato, ma la verità è che non me ne frega proprio un cazzo.» Porta la trombetta di plastica lunga e sottile, e ci soffia dentro, generando un suono prolungato e fastidioso. «E a noi del tuo appuntamento.»
«Potrei dirti che sei una testa di cazzo, ma sarebbe un complimento.» Torno sui miei passi. Dietro l’angolo, un vicolo stretto, tra due palazzi. Potrebbe sbucare dall’altro lato della strada.
La via si stringe tra palazzi scrostati, con il bucato appeso e finestre socchiuse. Che schifo, questo tanfo di piscio mi resterà attaccato per giorni. L’asfalto consumato si mescola ai sampietrini irregolari. Una vecchia auto è parcheggiata a ridosso di un muro, i vetri riflettono la luce fioca.
Finalmente ci sono. In fondo al viale, un uomo con i capelli grigi e una tuta azzurra mi saluta con un cenno. Le lunghe cesoie scattano sulla siepe davanti a lui.
Ok, ho tutto quello che mi serve. Riprendo il cammino e salgo i gradini bagnati, con gli aghi di pino incastrati nella ringhiera. Il vento scuote i rami di un salice spoglio e spinge nuvole scure, gonfie di pioggia.
Il palazzo di vetro scuro svetta sopra gli abeti. Entro nell’atrio; sulla destra, una rampa di scale e, accanto, tre piante dai fiori bianchi. Un leggero odore di tabacco si mescola a una nota fresca di limone.
Sulla parete di fronte sono appesi dei ritratti. In uno di essi, un uomo con i capelli scuri, pettinati con una riga laterale e ondulati, appoggia la mano al mento e fissa l’osservatore.
Mi avvicino alla reception e schiarisco la gola. «Buongiorno, ho un appuntamento per un colloquio.»
La donna, caschetto biondo e grandi occhiali, infila il cellulare sotto una cartella azzurra.
«Lei è il signor…?»
«Giorgio Stami.» Le porgo la carta d’identità.
Abbassa il volume della radiolina alla sua destra; le note di Mengoni si affievoliscono. Scorre lo sguardo sul monitor e aggrotta la fronte.
«C’è un problema. Qui risulta un appuntamento per una Giorgia Stami.»
Mi sporgo sul banco. «Cosa?»
Lei sospira. «O ha sbagliato ufficio, o qualcuno ha fatto casino con la registrazione.»
Mi mordo l’interno della guancia. «No, è impossibile. Ho ricevuto la conferma ieri sera.»
La receptionist scrocchia le dita. «Io vedo solo una Giorgia Stami. Se c’è stato un errore, non dipende da me.»
«Chiami qualcuno. Il responsabile tecnico.»
La ragazza stringe la radice del naso. «Non posso far passare chiunque dica di avere un appuntamento.»
«Sta scherzando?» Il palmo della mano colpisce il bancone.
Lei si ritrae appena. «Signor Stami, la prego di calmarsi, o sarò costretta a chiamare la sicurezza.» Porta la mano al telefono e preme un tasto. «Un certo Giorgio Stami dice di avere un colloquio, ma nel sistema risulta solo una Giorgia Stami.»
«Capisco…» dice lei, il tono cambia. «Sì, come desidera.»
Abbassa la cornetta. «Tutto risolto. Può andare al quinto piano.»
«Ha risolto tutto con l’aiuto dei Puffi?»
Afferro lo zaino e mi dirigo agli ascensori.
Percorro la sala e mi fermo davanti all’ascensore. Premo il tasto per chiamarlo, accarezzando i petali bianchi della calla in cima allo stelo. Le ante scorrono di lato.
Entro nella cabina.
A destra si trova la pulsantiera in acciaio, sopra la quale uno schermo blu indica il piano. Premo il cinque. Davanti allo specchio sposto la frangia di lato e sistemo le punte dietro l’orecchio. Un leggero contraccolpo, e le porte si aprono con un soffio.
Di fronte, una sala d’attesa con vetrate che si estendono dal soffitto al pavimento. Al centro, un tavolo ovale circondato da otto sedie; davanti a ciascuna, una bottiglia d’acqua con il tappo ancora sigillato.
Un uomo in camice bianco esce da un varco laterale e mi fa un cenno con la testa. «Prego, puoi seguirmi.»
Attraversiamo un corridoio stretto, costeggiato da scrivanie. Uomini e donne digitano sulle tastiere dei computer. Una donna con un foulard viola stringe la cornetta del telefono tra la spalla e l’orecchio, un fascio di fogli le scivola sull’avambraccio.
Un tizio con una striscia di capelli appena sopra le orecchie parla davanti alla lavagna bianca, su cui è scritto: Richiamare l’anima richiede una forza esterna Fext che deve superare la soglia necessaria, Freint.
Fext ≥ Freint = α⋅D
Si volta verso di me, cammina fino alla parete di vetro. Mi fissa per un attimo, afferra la tenda e la tira lentamente, coprendo la stanza alla mia vista.
Allungo il passo e raggiungo il mio accompagnatore, che apre una porta in acciaio.
Nella stanza del colloquio ci sono una scrivania di metallo, un paio di sedie e una luce LED.
Mi siedo di fronte a un uomo con occhiali spessi, posati sulla punta del naso; senza alzare lo sguardo, spulcia un fascicolo. Il tavolo è graffiato lungo i bordi e ha una patina opaca dove appoggio le braccia.
«Giorgio, giusto? Grazie per essere venuto.»
China il capo sul foglio; una ciocca di capelli, che copre in parte la calvizie, gli cade sul naso. La rimette a posto.
Alla sua destra, una finestra con la tapparella mezza abbassata lascia entrare un filo di luce.
«Sì, grazie a voi per l’opportunità.»
Sfila un fazzoletto dal taschino, pulisce le lenti e mi lancia uno sguardo rapido. «Bene. Immagini di trovarsi davanti a un motore elettrico guasto.»
L’orecchio destro sporge più dell’altro.
«Per prima cosa staccherei l’alimentazione. Poi userei un multimetro per misurare la resistenza delle fasi e capire se c’è uno squilibrio. Se la differenza è notevole, potrebbe trattarsi di un cortocircuito nel rotore o di un problema di isolamento.»
L’uomo annuisce. «E se invece trovasse un’anomalia nei cuscinetti? Come la individuerebbe?»
Il pavimento è piastrellato, e sotto la mia sedia c’è un po’ di fango.
«Ascolterei il rumore del motore. Se i cuscinetti sono danneggiati, si sente un suono metallico, come uno sfregamento. Controllerei anche se ci sono vibrazioni anomale con un analizzatore, per esserne sicuro.»
Continua a sfogliare la pila di fogli. «E mi dica... se rilevasse un’eccessiva dissipazione termica?»
Il condizionatore alle sue spalle mi spara in faccia una puzza acre di acqua putrida.
«Potrebbe dipendere da un sovraccarico, un problema di raffreddamento o un guasto interno, come nel rotore o nello statore.» Sbottono la giacca. «Prima controllerei il carico sulla linea, poi la ventilazione. Se serve, userei una termocamera per trovare il punto esatto del surriscaldamento.»
Solleva lo sguardo, incrocia le dita davanti a sé e fa roteare i pollici. «Ora vorrei vedere come si comporta in una situazione pratica.» Ripone i fogli nel raccoglitore e la penna nel taschino.
Mi accomodo in un laboratorio invaso dal ronzio acuto degli strumenti elettronici. I banchi di lavoro sono carichi di multimetri, oscilloscopi e alimentatori, sparsi in un apparente disordine. Di fronte, un pannello di controllo è cosparso di fili e luci intermittenti.
L’uomo si avvicina e indica un macchinario al centro della stanza. «Questa è una delle nostre apparecchiature. Stiamo simulando un guasto in uno dei circuiti. Risolva il problema nel minor tempo possibile.»
Le pareti sono dotate di armadietti e scaffali pieni di materiali e attrezzature. Mi chino sul pannello, controllo l’ingresso: duecentotrenta volt. Posiziono i puntali dopo il ponte di diodi, uno sul positivo e l’altro sul negativo. Nessuna traccia dei ventiquattro volt in continua.
Stacco la presa e misuro il raddrizzatore a vuoto, tra anodo e catodo. Zero millivolt.
Raggiungo il bancone, apro i cassettini, recupero un ponte raddrizzatore con la stessa sigla. Accendo il saldatore.
Tiro fuori il cellulare, controllo la posta elettronica. Niente di nuovo.
Dovrebbe essere già caldo. Avvicino il filo di stagno alla punta. Non fonde; merda.
Lo pulisco contro la spugna umida e riprovo. Ancora niente. Il saldatore è troppo freddo. Stringo la mascella, aumento la temperatura al massimo. Il risultato non cambia.
Ricci incrocia le braccia. «Problemi?»
«Questo coso è difettoso.»
Lui indica il fondo del locale. «Usane un altro.»
Apro l’armadietto, frugo tra pinze amperometriche e generatori di frequenza. Eccolo. Uno identico.
Lo attacco alla presa, pulisco la basetta e ci soffio sopra. Provo con lo stagno: un filo di fumo si solleva dall’estremità, la goccia fusa abbraccia la punta.
Rimuovo il ponte di diodi, saldo quello nuovo e collego tutto. Con il mento faccio un gesto a Ricci. Lui preme il pulsante d’accensione.
Il macchinario non si accende.
Ricci solleva un sopracciglio. «Qualcosa non va, Stami?»
Mi asciugo il sudore dalla fronte e ripeto le misure. Mi irrigidisco.
«Hanno conservato componenti difettosi o qualcuno ha deciso di farmi perdere tempo.»
Il capo del personale mi lancia un’occhiata. «Forse hai sbagliato qualcosa.»
«Io non sbaglio.»
«Davvero?» Scuote la testa. «Hai altre cose da controllare o vuoi continuare a cercare scuse?»
Stringo i pugni fino a farmi male. Riduco il range del multimetro, ricontrollo il circuito. Tutto sembra in ordine. Ma il voltaggio in uscita è zero. C’è solo una spiegazione.
Si volta. «Puoi tornartene a casa, per me hai finito.» Ed esce dalla stanza.
Stronzo.
Apro un altro cassetto e acciuffo un nuovo componente. Lo misuro con il selettore del multimetro su “diodo”. Zero virgola sei VDC.
Lo saldo, ricontrollo i collegamenti e chiudo il pannello.
Respiro a fondo, deve funzionare, ne sono sicuro, non ci sono altre avarie. Raggiungo il pulsante e lo premo. Il macchinario si accende con un borbottio costante. Mi sollevo, asciugandomi i palmi sudati sui pantaloni.
Ricci rientra e annuisce. «La prossima volta, controlla il materiale prima di lamentarti.»
«La prossima volta, fornite pezzi che funzionano.»
Lui sorride appena. «Sei uno di noi, ora. Qui non ci si annoia mai e c’è sempre da imparare.»
«Sono pronto a farmi il culo per non deluderla.»
Inserisce una serie di spunte sulla pagina. «Mi aspetto che lo sia. Ora, ci sono alcune clausole di segretezza che dovrà firmare. E, naturalmente, dovrà affrontare una formazione specifica per apprendere il funzionamento delle nostre macchine.»
«Capisco. E... posso chiedere chi terrà la formazione?»
Gli scappa una risata. «Mario. È il nostro responsabile tecnico. Una delle persone più competenti in questo campo, ma... molto esigente.»
«Capito, farò del mio meglio.»
Mi passa un foglio. Non divulgare informazioni... Consenso al trattamento dei dati... Riservatezza assoluta...
Le righe sembrano infinite. Gli strappo la penna e firmo.