I liminali

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Infiltrato

Puzza d’alcol. La luce intorno a me converge verso una sfera scura e la risucchia. Buio.
Una voce alle mie spalle. «Sei stato scelto per un motivo. Per salvare la nostra specie, dovrai fare quello che ti è stato ordinato.» No, le parole provengono da davanti. «Premi il pulsante rosso, non importa a quale prezzo.»
Fluttuo nel vuoto, privo del mio corpo. Non esisto? No. Penso, mi pongo domande, ho paura, sono vivo. Che cosa sono io?
Qualcuno parla, ovunque. «Pensa agli auricolari, la tua ancora alla realtà!»
È solo un incubo? O forse questa è la morte?

Il pulsante rosso.
Cos’è questo tanfo? Mi sono cagato addosso? Apro gli occhi. Davanti a me, un fucile a pallettoni. Il gelido metallo mi sfiora il naso.
«Chi sei e cosa ci fai nel mio porcile?» dice una voce femminile.
Ecco cos’era l’odore di merda: i maiali, che si agitano intorno alla donna. Ha la fronte segnata da rughe; una cicatrice violacea le attraversa le labbra sottili.
Mi inginocchio. Un porcellino, con una macchia nera sulla schiena, mi annusa il culo.
Sollevo le mani in segno di resa. «Mi chiamo Emi–»
Lei preme la canna del fucile sulla mia bocca. «Non dirlo, non mi interessa!»
«Cerco un posto dove passare la notte.»
Un border collie si avvicina, mi lecca il viso.
La donna appoggia il fucile sulla spalla. «Se vai bene ad Adamo, allora vai bene anche a me.»
«Spero di togliere il disturbo al più presto.»
Si volta di scatto. «Prima, però, dovrai levarti tutta quella cacca di dosso. Seguimi.»
Un gruppo di passeri cinguetta sulla rete del recinto. Scappano al nostro passaggio.
Salto una pozzanghera. Nell’acqua si riflette un cerchio bianco, solitario nel cielo.
All’orizzonte, le prime luci del dilucolo tingono le nubi di arancione.
Attraversiamo un sentiero in terra battuta.
A destra, in un recinto, un cavallo marrone con una stella bianca sul muso alza le orecchie, nitrisce e si avvicina al galoppo. Si ferma a pochi passi, solleva la coda e, con la testa, oltrepassa la staccionata, sfiorandomi il viso.
Un canneto smosso dal vento, abbarbicato al muretto a secco, protegge una Fiat 124 celeste.
Deve essere qui, il pulsante rosso.
Il cane ci precede abbaiando. Il suo manto grigio e bianco è sporco di fango.
La brezza marina spazza via le nuvole scure, portando con sé il profumo del mare. La donna mi dà una spallata e passa avanti.
Saliamo una scala esterna. Striscio la mano sulla ringhiera: pezzi di ruggine mi restano sul palmo. Li rimuovo con l’altra.
Entriamo in casa. La radio trasmette la musica di Stelvio Cipriani.
Trovo strano che questa donna non abbia paura e mi faccia entrare come se niente fosse.
Scompare dietro una porta a vetri.
L’odore di legno bruciato invade la stanza.
Un telefono appeso alla parete: che fortuna, posso chiedere informazioni.
Merda, è rotto. Manca il sele... no, eccolo, il selettore rotativo è ai piedi del tavolo.
«Puoi entrare a lavarti,» dice lei, lasciando cadere una busta nera.
In fondo alla stanza, vicino a una finestra senza tende, scoppiettano le braci nel caminetto. Del formaggio si scioglie e cola in un piatto rosa. Adamo si accuccia vicino al fuoco.
Lei molla una busta ai miei piedi. «Butta quegli stracci nel sacchetto. Troverai vestiti puliti accanto alla vasca.»
Sulla cappa del camino è appesa una foto. È in divisa azzurra, accanto a una bambina che le somiglia. Nonostante l’immagine sia un po’ sfocata, hanno lo stesso naso a punta e orecchie leggermente a sventola. Forse è la figlia. Nella foto non c’è il padre. Immagino sia lui dietro l’obiettivo. Questa ragazza è un militare. Ecco perché mi ha lasciato entrare. È addestrata.
«Posso fare una telefonata?» Raccolgo la busta di plastica e la appallottolo. «Come ti devo chiamare?»
La donna accarezza il cane. «Prima ripara il telefono, poi potrai farla.»
Entro nel bagno. Una brocca d’acqua di terracotta è appoggiata sul lavandino. Sotto il rubinetto della vasca scorre un sottile rivolo d’acqua e ruggine.
Ora va meglio.
Allaccio i bottoni dei pantaloni verdi in velluto. Sono perfetti, della mia misura. Metto un maglione di lana grigio.
Esco e vado in cucina.
La signora mi indica una sedia davanti al tavolo apparecchiato. Sulla seduta è disegnato un otto. «Avrai fame. Mangia qualcosa anche tu.»
Si porta alla bocca una fetta di pane con il formaggio fuso. I bordi sono abbrustoliti.
«Vivi sola?»
Versa del vino nel mio bicchiere e schiaccia una noce con un pugno.
Di poche parole, la ragazza. «Dove sono gli attrezzi?»
Lei raccoglie i capelli dietro la nuca, li tiene fermi con un fermaglio, apre un cassetto vicino all’ingresso e lancia sul tavolo un giravite a taglio con il manico scheggiato.
Inspiro profumo di sciampo alla mela viola.
Afferro l’utensile, raccolgo il selettore numerico, lo monto, sollevo la cornetta. Sull’altoparlante, il tono di linea libera.
«Posso ora?»
Solleva il mento ed entra nella stanza vicina.
Compongo il numero. «Comandante, sono esattamente dove avete chiesto, ma non trovo il posto. Qui non c’è!»
«Controlla. Hai l’auricolare?»
«Che cosa?» Mi tocco l’orecchio. «No, non ce l’ho.»
«Benissimo. Allora sai dove sei.» Ticchettio di unghie. «Il posto è lì. Trovalo e fa ciò che devi.»
«Farò il possibile per salv–»
Maledizione, ha chiuso la comunicazione.
Apro il davanzale e agguanto un coltello.
La donna irrompe in cucina. «Cosa stai combinando?»
Con un movimento brusco le premo la punta alla gola. «Dimmi dov’è l’accesso alla stanza. Parla o ti sgozzo.»
Lei mi molla due gomitate ai fianchi.
Le spingo la lama sul collo. «Stai ferma o ti taglio la giugulare. Devo trovare quel posto, poi ti lascerò andare.»
Rilassa le spalle. «Non ho idea di cosa tu stia parlando.»
Sposto l’arma e la faccio scivolare sul suo braccio. Il sangue le scorre lungo la mano, gocciola sulle mattonelle.
Piega la testa all’indietro, colpendomi al mento. «Non conosco il posto che cerchi!»
«O mi dici subito quello che voglio sapere o ti lascio morire dissanguata. Poi vado a cercare la ragazzina della foto.»
Lei solleva le mani. «Guarda l’immagine. Osservala meglio.»
Le tiro i capelli. «Non ho tempo per queste cazzate!»
Mi stringe il polso. «Allora prova a pensare a qualcosa di piacevole. Un luogo del tuo passato, qualcuno nella tua memoria.»
I miei ricordi sono confusi. Un prato. Sì, una grande distesa verde con una bambina a cavallo.
Ma che cazzo, non devo lasciarmi convincere.
Tocco l’auricolare. Non c’è.
Resta concentrato, Emilio. Sai dove sei.
Premo la punta sulla sua pelle. Ne stilla una goccia di sangue.
Lei tira su col naso. «Okay, ti ci porto.»

La stanza

La donna si dirige all’angolo opposto del camino, alza un tappeto blu. Sotto c’è una botola in acciaio lucido. «Quello che vuoi fare è sbagliato, e tu lo sai.»
«Apri quel portello!»
Lei traccia un cerchio in aria. Sospesi, compaiono dieci cubi gialli. Con l’indice ne sovrappone quattro e fa combaciare i lati dei restanti sei.
Il coperchio si solleva con un cigolio, un odore di muffa mi penetra nelle narici. Rumore di ingranaggi. Un ripiano trasparente fuoriesce dal muro. Quattro lampadine si accendono sulle pareti.
Montiamo sulla lastra.
«È sicuro questo coso?»
Inizia a fluttuare, portandoci giù.
Scendiamo dal supporto. Un sensore pulsa: ha rilevato la nostra presenza. Un display mostra un conto alla rovescia e tre spazi vuoti. Sotto, un diodo LED rosso proietta l’ologramma di una tastiera circolare e un sensore ottico per l’impronta digitale.
Il conteggio è iniziato. So cosa fare.
Cinque secondi: appoggio l’indice e digito ‘18’. Uno scatto proviene dalla porta.
Tre secondi: premo il medio e inserisco ‘24’. Un altro click.
Un secondo: è il turno dell’anulare, compongo ‘30’.
Zero. Un fischio. La parete destra vibra, sibila e inizia a muoversi. Polvere cade dal soffitto.
Si divide in due. Mi arriva un lezzo d’acqua stagnante.
Mi giro. «Tu che fai? Non vieni con me?»
Mi segue. «Hai flash o immagini di persone nella tua vita?»
Curvo la schiena. «Pensa a muoverti.»
A ogni passo, si accende una luce verde sul pavimento, quella dietro si spegne.
«Vuoi sacrificare tutto per qualcuno che forse non merita di vivere?» dice lei.
«Stai parlando della mia gente? La mia famiglia?»
«Sì. Devi solo ricordare.» Mi tira per un braccio. «Ma non capisci? Questa lotta sta distruggendo entrambi.»
«Basta! Stai zitta, non fai altro che confondermi.»
Calore... Amore, forse. Una famiglia, una figlia. È come mettere insieme un puzzle con parti mancanti.
La donna si stringe la radice del naso. «Dobbiamo lasciare che il ciclo naturale degli eventi decida, anche se questo significa perdere tutto.»
«Perdere tutto? Tu non hai niente. Cosa potresti perd–»

Il sughero ruvido della quercia mi punge la schiena. Le sue foglie mi riparano dai caldi raggi del sole di mezzogiorno. Cambio posizione sfogliando il giornale.
«Senti amore, è stata inaugurata Gardaland.»
Di fronte a noi, Giada galoppa sul suo cavallo bianco e marrone.
Sara versa il caffè nelle tazzine con le fragole. «Sarebbe bello andarci insieme.» Una goccia cade sulla tovaglia.
All’improvviso, l’animale si impenna, spaventato.
«Attenta Giada, tieniti forte!» grido.
La bambina cade a terra. Corriamo verso di lei. La raggiungo e la sollevo, la sua bocca è macchiata di sangue.
La porto all’ombra dell’albero. Sara le spruzza acqua sul viso, rivelando un taglio sulle labbra.
La tengo stretta. «Dobbiamo portarla in ospedale. Non preoccuparti, ranocchia, non è niente di grave.»
Un dolore acuto alla nuca, la vista è annebbiata.
Era un sogno? Un ricordo? O il programma che vuole confondermi?
Una sagoma dai contorni sfuocati prende forma.
Nelle sue mani, un sasso sporco di sangue. «Mi hai costretta tu.»
Mi tocco la testa. Le dita sono umide e appiccicose. Sono accovacciato a terra.
«Come ti sei fatta la cicatrice? Quella sulla bocca, intendo.»
«Non sono affari tuoi.» Mi dà un calcio al polpaccio.
«State interferendo con il destino di intere civiltà. Fermatevi, rinunciate, o non ci sarà nulla da salvare. Per nessuno.»
«La tua filosofia non salverà i miei amici. Ho visto di cosa siete capaci!»
Lei si china su di me. «Fammi vedere la testa, andrà medicata.»
Una catenella con un ciondolo le penzola dalla camicetta bianca.
Le do una testata sul naso. La donna perde l’equilibrio e sbatte la nuca contro il muro.
Mi alzo e le assesto un calcio allo stomaco. «Preferisco combattere e perdere.»
Lei tossisce e sputa sangue. «Non capisci? La tua famiglia sono io. Tua figlia.»
Indietreggio e cado. «No. Tu mi vuoi manipolare. Io devo distruggere questo pianeta, mi è stato ordinato. E lui non sbaglia mai, mi ha parlato.»
La donna si protegge lo stomaco. «Quando? Come?»
«Anche poco fa, al telefono.»
Una lacrima le riga il viso. «Papà, quel telefono non ha mai funzionato.»
Mi appoggio al muro. «Sei bugiarda!» urlo.
Salto in piedi. Resta l’impronta rossa delle cinque dita sulla parete. Scappo via. Inciampo e mi rialzo.
Un grande portone si erge dinanzi a me, ornato al centro da un altorilievo di una sfera azzurra, da cui si dipartono onde concentriche gialle.
Poggio la mano sulla superficie. Il suo profilo irradia un tenue colore verde.
Uno stridulo cresce d’intensità. Le due ante scorrono, ognuna sul lato opposto.
Un fetore di peli bruciati mi infila nelle narici. Un passo alla volta, entro.
Un faro arancione illumina il locale. Un fruscio si leva nell’aria. Un piedistallo si alza dal pavimento.
In cima, il tasto. Rosso.
È lui. Ce l’ho fatta. Mi basta premerlo per salvare il mio popolo e la mia famiglia.
Sollevo il braccio, pronto a compiere la mia missione.
«Aspetta!» urla la donna. Cade dietro di me. «Non puoi farlo. Così condanni il nostro mondo. Ucciderai me. Tua figlia.»
«Io non ho figlie.»
Mi porto di fronte al pulsante, pronto a premerlo.
«Io sono Giada. Possibile che non ricordi?»
No. Non posso lasciarmi ingannare. Sembra solo un trucco per guadagnare tempo.
Afferro il suo braccio e la colpisco al volto.
Le resta un segno rosso sulla guancia. Le gambe le tremano, cedono sotto il suo peso.
«Aspetta, ti prego.»
Lei unisce i palmi in preghiera.
«Non ti rendi conto? Il cane ha scodinzolato, il cavallo ti ha riconosciuto.»
Parla con difficoltà. Il sangue e la saliva le colano dalle labbra, formando una chiazza rossa sul pavimento.
«Non mi ricordo di questo posto. Non ci sono mai stato.»
«Rammenti come mi sono fatta la cicatrice, Papà? Quando sono caduta da cavallo? Tu e mamma eravate lì con me.»
Mi tengo i capelli. «Basta, smettila di blaterare!»
Giada estrae un ciondolo dalla sua camicetta e lo apre. All’interno c’è una fotografia.
«Guarda!» dice. «Sei tu. Ti riconosci? Ci siamo anche mamma e io. La bambina nella foto sono io.»
Resto immobile, con quella piccola foto tra le dita. Non può essere vero. È tutto sbagliato.
Sollevo lo sguardo e incontro i suoi occhi azzurri.
In quello sguardo c’è Giada.
Allargo le braccia. Lei si lancia tra le mie.
Mi perdo nel profumo della sua pelle, nel calore del suo abbraccio. Una dolce sensazione che avevo dimenticato.
Giada, in lacrime. «Ricordi tutto, ora? Papà?» La sua voce è incerta.
Pensa all’oggetto. Sì, un dispositivo nell’orecchio. Che cos’era?
L’ho dimenticato, ma non è importante.
«Sì, ogni cosa. Le gite, le tue lunghe cavalcate. Vieni qui, amore.»
Giada mi sorride e appoggia la testa sulla mia spalla.
«Torniamo a casa. Dobbiamo sigillare tutto.»
«Va bene, ranocchia. Non ti lascerò più sola. Ci sono io ora. E mamma? Dov’è Silv–»

verità svelate

Un leggero odore di alcol. Una morsa invisibile mi stringe le tempie.
Mi ritrovo sdraiato. Qualcosa di duro preme contro la schiena. Le gambe e le braccia sono immobilizzate da fasce strette.
Cosa sta succedendo? Come ci sono arrivato qui? Ero a casa, con Giada.
Il soffitto lucido riflette la mia persona… cazzo, ma indosso una strana tuta.
Do colpi con i piedi e tiro con le braccia. È inutile. Ho un casco in testa, collegato a due cavi e tre tubicini neri.
Altri individui in stasi su poltrone simili alla mia.
«Lasciatemi andare!» urlo.
Un tizio pelato indossa un’uniforme grigia. Sul petto spicca un distintivo a forma di otto. Si avvicina di corsa. «Che cosa ti prende, soldato? Sei impazzito?»
«Chi sei? Lasciami andare!» Il tizio sgancia la fibbia che tiene ferme le braccia. «Calmati, ora. Non mi riconosci? Sono il tuo comandante, Marco. Scusa per prima, ho perso la comunicazione. I tecnici ci hanno lavorato, ma non sono riusciti a ripristinarla.» Mi libera le caviglie. «Hai l’auricolare?» Mi tocco l’orecchio. «Dov’è Sara? Dov’è Sonia? Tua mamma, mia moglie?» «Fate venire Giada!» urla. «Giada è qui?» Una ragazza si avvicina, indossa una divisa azzurra. Le orecchie, un po’ a sventola, spuntano dai capelli biondi raccolti sotto un basco. Una cicatrice le attraversa le labbra.
«Giada, sei tu?»
«Calmati, sei sotto shock. Sì, sono Giada, ma solo la tua assistente.»
Mi aiuta ad alzarmi.
«Qualunque cosa ti abbiano fatto vedere, è probabile che si siano intrufolati nella tua mente e abbiano generato dei falsi ricordi.»
«Cosa mi succede? Io ero con te, ero con mia figl–»
«Io non sono tua figlia, così come Sara non è tua moglie. Seguimi,» dice, offrendomi la mano.
Saliamo tre scalini e una porta si apre. La rincorro lungo un corridoio bianco, troppo luminoso.
«Dove mi stai portando?»
La giovane rallenta, mettendosi al mio fianco.
«Dal nostro generale. Lei ti farà ricordare.»
Ci fermiamo davanti a un pannello bianco. Diventa trasparente e scompare, rivelando un’apertura.
Giada mi fa segno di entrare. Varco la soglia. Lei si gira sui tacchi e si allontana.
«Aspetta, non andartene.»
A due metri da me, una scrivania. Sopra, uno schermo mostra l’immagine di un pianeta.
In un angolo, il modellino della ruota panoramica di Gardaland.
Non riconosco i continenti.
Più in là, una figura di spalle. È in divisa: giacca bianca e pantaloni neri.
Osserva l’esterno attraverso una finestra rotonda.
Ha le mani serrate a pugno dietro la schiena.
Ma dove sono? Sembra lo spazio.
Questo è un incubo.
Si gira. Un ricciolo rosso le cade sull’occhio destro.
«Ciao, Emilio.»
«Mi devo svegliare. Tu non esisti.»
La donna morde una mela viola. Le sue labbra carnose si confondono con il colore della buccia.
«Sì, l’aspetto non è dei migliori, ma il sapore dovrebbe essere quello giusto, più o meno. Hai l’auricolare?»
Non mi è nuovo il profumo dolciastro del frutto.
Sfilo il dispositivo dall’orecchio, lo getto a terra e lo schiaccio con il piede.
«Ora avete finito di rompere le palle con questo aggeggio!»
Lei si avvicina, posa una mano sulla mia fronte.
«Ricorda, Emilio. Ricorda.»

Tutto si fa confuso e fumoso.
Luce bianca. Bagliori intermittenti. Rosso, blu, verde ruotano attorno a una figura umana.
Il flusso di particelle si solleva e si sposta in un’unica direzione.
Un cerchio nero, i cui contorni fluttuano, ne cambia l’aspetto.
L’uomo viene sollevato. È immobile. No, si muove dalla mia parte.
Ma… sono io. Quello sono io, risucchiato dal buco nero.
No, aspetta. Non puoi…

Su uno schermo appeso alla parete, il vecchio film in DVDX2: Il venditore di palloncini.
Un bip acuto all’orecchio. Una voce mi parla direttamente nel cervello.
«Sveglia, sottospecie di soldato.»
Mi alzo di scatto. Adam, il mio cagnolino di peluche, cade dalla mensola.
Ho letto che era il miglior amico dell’uomo.
Indosso la tuta aptica e prendo posto sulla mia poltrona.
Il comandante ci osserva dalla stanza di controllo.
«Il giorno della missione è arrivato. Il vostro compito è semplice: collegarvi alla rete del pianeta, eludere il suo firewall e distruggere la maglia energetica che ci impedisce di atterrare.»
La sua voce rimbomba negli altoparlanti.
«Vi faranno vedere cose terribili. Useranno le vostre emozioni. Niente è reale. Attenetevi alla missione.»
Giada mi assicura alla sedia.
«Ricordi la password?»
«Diciotto, ventiquattro e trentadue.»
La ragazza mi infila i guanti tattili e stringe la cinghia delle braccia.
«Ahi! Okay, il numero è trenta e devo usare le dita.»
Schicco le labbra in un bacio.
Un casco viene calato sul mio capo.
Una serie di luci ruota davanti a noi.
Stringo il bracciolo della poltrona. La testa mi esplode.
Non resisto. Ogni cellula del mio corpo sembra bruciare. Non riesco a…

«Sei stato scelto per un motivo. Per salvare la nostra specie, dovrai fare quello che ti è stato ordinato. Premete il pulsante rosso, non importa a quale prezzo.
Pensa agli auricolari, la tua ancora alla realtà!»

Maledizione. Non era un incubo.
Sara allontana la mano.
«Ricordi, ora?»
«Non tutto. Non chi ci ha escluso dal pianeta e ha messo lo scudo che ci tiene fuori.»
Il generale sospira.
«Sono stati gli abitanti. La nostra fama, la reputazione della nostra specie, di ciò che facciamo, si è diffusa in tutte le galassie conosciute.
Ogni razza sa chi siamo: una specie che distrugge tutto ciò che tocca.
E ognuno cerca di proteggere il proprio mondo.»
«Quindi, questa non è la Terra?»
Sara raddrizza la schiena.
«No. La Terra è stato il primo pianeta che abbiamo annientato.»
Sollevo lo sguardo e la fisso.
«Quindi, non premendo il tasto ros–»
«Hai condannato il genere umano.»
Si siede sopra il tavolo.
«Sì, forse. Ma quante altre specie ho salvato?»
Da un armadio escono due umanoidi. Sara fa un gesto e loro mi afferrano per le spalle.
Lei osserva l’infinito. Il nulla si estende oltre il vetro.
Le stelle sono lì. E ci resteranno per molto tempo.
«Mi dispiace per tutti noi. Se l’umanità non cambia atteggiamento, se non impariamo a mostrare rispetto e considerazione per gli altri, allora il nostro destino sarà segnato.»
«Portatelo via,» dice sottovoce.

Nel mio cuore si cela un desiderio. Nell’ombra della vecchia quercia, i miei pensieri viaggiano liberi insieme alla mia Giada, che cavalca in terre lontane, portatrice di sogni senza confini.

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